Scritto di una spettatrice che ha assistito alla replica dello spettacolo: MIO NONNO L’OLIVO l’11 marzo 2011 al Supercinema Teatro di Loreto Aprutino.

Carissimo Fausto,

nel tuo spettacolo ho trovato quello che cercavo e molto di più. Ci hai trasportati tra realtà e leggenda, in uno slalom orale, musicale e corporeo punteggiato dalle fatiche quotidiane della coltivazione e dai riti familiari della divinazione, dai suoni caldi dell’organetto e del dialetto, evocando una simbiosi uomo-natura che oggi sopravvive a stento in un mondo rurale sempre più urbanizzato, impestato dal “marketing territoriale”, che riduce la coltivazione dell’olivo alle gite nei frantoi e all’acquisto di bottigliette rifinite a prezzi esorbitanti… che però non servono a far rivalutare tanta abbondanza, a far capire a chi la campagna la vede a malapena un paio di volte l’anno (per i frantoi aperti e le cantine aperte, appunto) tutta la bontà e la ricchezza di una pianta “che fa solo del bene, che dà da mangiare, che preserva dalle malattie”, ma anzi la deprezza del suo significato più vero, più sacro: memorabile a questo proposito il momento in cui l’attore racconta di guardare il cielo tutte le sere prima di andare a dormire, descrivendo le stelle col loro luccichio, chiedendosi chi ce le ha messe, da dove venga tanta bellezza; mi ha ricordato José Saramago, che nel suo discorso per il conferimento del premio Nobel (ti allego in calce a questa email il link alla versione integrale, tradotta splendidamente in italiano da un mio caro amico traduttore e contadino, ma probabilmente la conosci già) parla di sua nonna, che di fronte alla bellezza delle stelle si rammarica di dover un giorno lasciare questo mondo, e di suo nonno, che da vecchio passa nell’orto ad abbracciare e salutare piangendo tutti i suoi alberi, perché sente che presto non li avrebbe mai più rivisti. Il contrasto tra la permanenza della natura e la fugacità della vita umana tornerà nel poetico finale della pièce.

“Mio Nonno l’Olivo” è un canto struggente (spero tanto che non sia un ‘canto del cigno’: no, non sarà tale finché ci saranno persone come te, e realtà “paradossali” che ne terranno vivi la memoria e lo spirito!) su cui incombe lo spettro di un universo globalizzato, dove i lavori pesanti e manuali sono delegati agli immigrati, forse tra i pochi rimasti (insieme a qualche vecchio, il cui sapere rischia di venire sprecato nell’oblio) a parlare ancora la lingua della terra; se non fosse che (e qui si inserisce un’agrodolce nota di costume) alle piante bisogna parlare usando la loro lingua madre, e forse chissà, anche gli olivi al suono degli idiomi extracomunitari restano disorientati, persi, come un nonno forzato ad abituarsi a una badante straniera. E a proposito di voce: toccante l’uso di quella fuori campo dell’anziano, che in una vera e propria lezione di antropologia culturale elargisce la sua sapienza sull’olivo (e sul mondo): pianta bella e fonte di bene, come tutte le opere buone “creata da Gesù bambino”, opposta alle piante e alle cose cattive create dal demonio.

Uno spettacolo povero ma allo stesso tempo ricco, che si snoda tra le sagome stilizzate della scenografia e suggestivi giochi di luce, in cui prende corpo un monologo che è anche un dialogo: tra attore e albero, attore e musicista, attore e pubblico. Uno spettacolo in cui alla personificazione dell’albero da un lato, corrisponde la “vegetalizzazione” dell’uomo-attore dall’altra, che tra danze, filastrocche e anatemi si immedesima nell’olivo centenario, abbandonato in un bosco di simili, dove da troppo tempo non si conosce più la mano (radicale ma fondamentale) del potatore. L’uomo vorrebbe salvare l’albero, riportarlo a nuova vita, farlo sentire di nuovo giovane, utile e felice, carico di quintali di frutti, ma purtroppo non ha né le forze fisiche né i mezzi: parliamo del sostegno colpevolmente latitante dello Stato, che preferisce destinare contributi ad altre colture non autoctone o, peggio ancora, al cemento delle fabbriche e della grande distribuzione organizzata — non dimentichiamo che l’Abruzzo è al vertice di una poco invidiabile classifica, come prima regione in Italia per l’alto rapporto tra numero di ipermercati e popolazione residente!

Permettimi infine qualche nota personale: sono figlia di un contadino (a sua volta figlio di mezzadri, e a vent’anni diventato cittadino suo malgrado, ma che per tutta la vita ha dedicato alla terra ogni suo momento libero, ogni pensiero, rimpiangendo sempre il tempo in cui “non avevamo niente… ma non ci mancava niente!”), così anch’io da piccola ho raccolto le olive rimaste sotto gli alberi, riempiendomi le unghie di terra; cresciuta, ho aiutato a rastrellare i rami nelle terre di parenti e amici (ti allego una foto scattata lo scorso novembre, giusto pochi minuti prima che un ramo mi sgusciasse dalla mano volenterosa ma inesperta, colpendomi in faccia con uno schiaffo – ti giuro, l’ho sentito quasi che mi diceva: “E mo’ sta cittadina travestita da contadina che vuole?”), perciò ho sempre “nuotato nell’olio”… non ho MAI usato altro condimento in cucina se non quello fresco, verde-oro, squisito delle terre teatine, aprutine, ascolane… solo quando, ormai dodici anni fa, ho trascorso sei mesi in Repubblica Ceca per una borsa di studio, non potendo portarmi bottiglie da qui ho usato quello di semi (ti immagini il sapore a condirci la pizza? Blah!). Tutt’ora quando vado in un ristorante evito di ordinare l’insalata, per evitare di condirla con un olio di dubbia qualità. E poi: gli impacchi da tenere in testa tutta la notte per ridare lucentezza ai capelli; i cataplasmi con olio d’oliva e foglie di rovo, toccasana per le scottature; dopo scongiuri segretissimi, lasciar cadere le gocce di olio d’oliva nel piatto colmo d’acqua per vedere/scacciare il malocchio (e il mal di testa sparisce all’istante!)… e mille altre emozioni e saperi che senza la mia famiglia e altre conoscenze ed incontri non avrei mai assorbito, senza le quali probabilmente oggi non scriverei degli articoli per un portale specializzato in tematiche agroalimentari, né forse avrei apprezzato appieno il vostro spettacolo. O forse sì?? Sarei curiosa di conoscere le sensazioni e le opinioni di chi queste cose non le ha mai nemmeno respirate, e per questo ti esorto a portare Nonno Olivo anche in città. Presto, però!

Un abbraccio affettuoso, e tante belle cose a te e al Paradosso. E nel caso aveste bisogno di una mano scrivana: io sono qua.

Franca

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