di Donatella Di Pietrantonio
con Irene Cocchini
musiche di Max Richter, Mauro Patricelli, Ólafur Arnalds
elaborati video Nicola Ioppolo
assistente alla regia Emiliano Scenna
drammaturgia e regia Giacomo Vallozza

elementi scenici Fausto Roncone
elementi meccanici Pierpaolo Di Giulio
immagini Anna Maria Faieta
foto di scena Tommaso Di Giorgio, Serena Cocchini
riprese video Francesco Calandra

Uno spettacolo del Teatro del Paradosso
Produzione Associazione Culturale Lauretana

Lo spettacolo

Le posso solo affabulare la vita.
È la terapia somministrata dalla figlia alla madre che sta perdendo progressivamente la memoria. Degli affetti, del corpo.
Non sa che sente freddo.
Nel dispiegarsi del racconto, ci inoltriamo in un mondo arcaico, in un quotidiano scandito dal faticare e dalle stagioni, vissuto in una casa prima dei monti, un piccolo sasso rotolato per sbaglio dall’Appennino abruzzese. Sembra un tempo lontanissimo eppure è solo qualche decennio fa.
Narrare la vita alla madre vuol dire inevitabilmente delineare la propria. E i nodi irrisolti di una relazione vengono al pettine. Un amore andato storto da subito. L’affetto, l’attenzione, morbosamente cercati dalla figlia vengono disattesi dalla madre. Non per disamore, per fretta, quest’altra forma del disamore. C’è sempre l’urgenza del lavoro, quella è la cifra della loro vita.
Poi si cresce e l’amore prende altre forme. La distrazione affettiva diviene meno pesante. È lì che ho smesso di desiderarla. Ho torto gli occhi da lei.
La malattia, imprevedibile, costringe la figlia a occuparsi della madre, ora che ha una vita e una famiglia proprie. A riaprire una ferita trascurata… I conti non si chiudono mai tra me e lei. Tutta la vita l’ho cercata, accattona che non sono altro. Ancora la cerco. Non la trovo. La cerco. Madre dolorosa.
È un amore/odio che non ha soluzioni di continuità. Infinito. Che si scarica con la stessa incoscienza con cui si arma. Certe volte la odio, ora che guido verso di lei. Odio il tempo che mi costa.
La scoperta, dolorosa e opportuna, è che i malati siamo noi, è la nostra società. Che dimentica con colpevole leggerezza i padri e i nonni migranti, di aver avuto freddo, fame, di essere stata povera. La storia allora diventa fastidiosa, insostenibile. Anch’essa gira in tondo senza trovare una via d’uscita. Invecchia in questa immaturità.
Mia madre è un albero, la sua ombra si riduce. Presto saremo allo scoperto.
La narrazione tenta uno spiraglio, una via d’uscita. Porta in primo piano l’amore, anche se fuso con l’odio. Diviene speranza dove la realtà la nega. Le accosta, madre e figlia, in una sera d’estate dove s’accendono le stelle. E qualche lucciola, guarda. (G. V.)

Scheda spettacolo

Scheda tecnica

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