notte bianca (alle due del mattino) tra sabato 28 e domenica 29 agosto Largo Bocce – Loreto Aprutino
Nu sande e nu vove
testo e regia, Giacomo Vallozza
con:
Fausto Roncone cantastorie;
Tommaso Di Giorgio conte D’Afflitto e don Alfonso;
Stefano Angelucci Marino sindaco e orafo lancianese;
Vincenzo D’Alfonso Don Michelangelo;
Costantino Cocchia dottor Guanciali e Don Romano;
Alessia Di Luzio notaio e contadina;
Federica Nobilio cortigiana e contadina;
Martina Schiavone cortigiana e contadina;
Lara Iannacci cortigiana e Nicola Vicini;
Antonio Crocetta canonico Di Matteo e bracciale;
Federico Lucci prete;
Alessia Vadini bracciale;
Luca Garcia bracciale;
Anna Chiappini bracciale;
in collaborazione con la Compagnia dei vetturali
elementi scenici e costumi Teatro del Paradosso
fonico Pierpaolo di Giulio
ufficio stampa Edda Migliori
Lo spettacolo ripercorre la storia di san Zopito, patrono di Loreto. E del bue che, a partire dallo stesso secolo XVIII, gli si affianca. La narrazione è ordita da un cantastorie. Racconta le origini, ovvero il bisogno dei loretani di dotarsi di sacre reliquie per proteggersi da terremoti, peste e sventure; la invenzione delle reliquie, della loro collocazione nella cappella di san Tommaso, allora patrono di Loreto; fino alla cacciata del bue dal tempio, ovvero a quando nel 1946 il parroco vietò l’ingresso dell’animale nella chiesa di San Pietro.
I braccianti, alter ego del bue, raccontano anche della trasformazione di una società che, prevalentemente contadina, si trasforma in urbana. Parallelamente avviene il declino del santo, dei suoi fasti, la sempre minore partecipazione del popolo. Lo spettacolo finisce con un interrogativo che viene rivolto al bue più che al santo, in quanto elemento immutabile, segno di una natura che muta interroga se stessa.
Le notizie sul santo sono, per le questioni che riguardano la storia e la scienza, in continua evoluzione. A cominciare dal nome, che sembra essere frutto di un errore, sia esso Zòpiros, Zòfitos o Sopìtus, comunque trasformato in Zopìto. Per continuare con il contenuto dell’urna dove, al posto del sangue apre esserci un frammento di muscolo cardiaco.
Insomma la nostra invocazione va al bue più che al santo, ma non per un paganesimo post litteram che sarebbe preoccupante. Ma perchè testimonianza concreta, immutabile del divino. Il bue di oggi, uguale a quello del 1700. Che allora, come oggi, continua ad inginocchiarsi perché fa piacere a noi umani.
E la seconda domanda è per gli umani: è rimasto in noi qualcosa del soffio divino?